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A tre anni dall'uscita del meraviglioso 'A Calling to Weakness', l'attesa d'ascoltare il nuovo lavoro di Mauro Berchi e compagni era davvero tanta, così come le aspettative. E se il precedente lavoro era uno splendido grido di dolore, 'The Unsaid Words' è il disco della maturità o, secondo le parole di Mauro, un canto di consapevolezza della propria condizione sofferente di 'straniero': nel proprio corpo, nella propria vita, nel mondo intero. 'The Unsaid Words' prende forma proprio là dove 'ACW' terminava, è ideale continuazione di quel 'This world is not my home' cantato in 'Frequency Omega'. Un non sentirsi a casa propria, come scriveva Heidegger in 'Essere e Tempo', che dev'essere concepito come 'il fenomeno originario'; non una semplice fase di spaesamento, quindi, ma un radicamento indissolubile in questa alterità. E solamente attraverso l'autoinganno questo spaesamento si risolve nel ritrovamento di una condizione apparentemente rasserenante e tranquillizzante. Ma dietro questo velo di apparenza, oltre questa maschera, gli occhi in realtà non vedono e le bocche non parlano. Le parole non dette, appunto. Una consapevolezza che si traduce in musica mediante il procedimento di sottrazione: tutto quello che non è necessario è stato eliminato e gli spazi vuoti assumono un significato fondamentale: le chitarre spesso si muovono su partiture minimali, la voce di Mauro 'canta' come mai non aveva fatto prima, le tastiere giovano di una produzione decisamente migliore del disco precedente; la musica, ormai definitivamente libera da alcune sonorità di derivazione doom/metal che avevano caratterizzato gli esordi del gruppo, procede sugli splendidi percorsi darkwave maturati in 'A Calling to Weakness'. L'inizio di 'This World of Mine', spalanca epicamente le porte del proprio inferno esistenziale, un mondo personale solo in apparenza 'meraviglioso', perchè basta poco per portare alla luce incubi, dolore e demoni latenti che gridano e graffiano dal profondo, nel quotidiano. Le chitarre sono pesanti, c'è poco spazio per il fraseggio e sono gli accordi pieni a strutturare la canzone. La consapevolezza si fa amara nella successiva 'The Possible Nowheres', un'amara confessione tra deliziosi intrecci di chitarre e tastiere, un momento di consapevolezza al termine di una notte insonne dove Mauro canta 'Tutto quello che inizia ha una fine da qualche parte/tutto quello che finisce è iniziato, da qualche parte': la felicità è destinata irrimediabilmente a finire e, seguendo la logica, anche il dolore. Eppure questo non provoca nessun conforto, ed alla fine della notte, nonostante le soluzioni possibili sembrino molte, in verità ogni luogo è 'nessun luogo'. 'Niente', 'mai', ed 'in n essun luogo' erano appunto le sentenze scolpite in 'ACW' che ritornano, ossessivamente, anche in 'The Unsaid Words; ecco, nere come la pece, scorrere 'Never again' e la conclusiva 'Nothing left (to share)'. Mai e nulla, appunto. Ma è in 'Senza una risposta', magistralmente affidata all'intepretazione di Gianni Predetti dei Colloquio che il disco raggiunge probabilmente il suo apice espressivo; un vagabondare senza metà tra una realtà sfuggente, invisibile, perennemente in ritardo, trattenuti dal passato, dal radicamento nel proprio spaesamento: essere nel cuore di nessuno o tra le braccia di qualcuno assume allora lo stesso significato, i sentimenti e le azioni non coincidono mai, il presente è sempre lontano, ed anche quando ci si illude di aver trovato il proprio posto ecco che 'la vita morde forte alle spalle/e quando sorride fa soltanto del male/Inganna, confonde, poi ti mente/accarezza poi disprezza/cancella tutto quando vuole/senza darti una risposta/senza darti un'altra volta'. Seguono una dopo l'altra altre superbe ballate come la triste 'Fragile', basata sul contrasto tra statuaria immobilità della propria condizione sofferente attraverso la negazione di qualsiasi desiderio (e dunque l'apparente assenza di dolore) ed il continuo frangersi di questo fragile equilibrio raggiunto. Splendidi passaggi in minore sottolineano ancora una volta la propria estraneità (d)alla vita: 'Fragile/immobile/in una gelida notte/non sento nulla/mentre trattengo il respiro e vedo la mia vita distrutta e ridotta in cenere (...) una vita che non capisco più'. Oppure 'In a never fading illusion', altro lento manifesto, o forse epitaffio, d'alienazione e alterità: 'Il mondo è immobile davanti a me ma non riesco a toccarlo/il mondo lampeggia davanti ai miei occhi nudi/ma non riesco a vederlo/il mondo ha il rumore assordante di un vetro che si rompe/ma non riesco a sentirlo/il mondo mi danza attorno/ma non riesco a muovermi'. Commuovente sino alle lacrime, preambolo dai remoti vissuti Pink Floydiani prima del finale nichilista: non importa dove io sia, cosa io sia diventato; non importa. 'Il rimpianto' è di nuovo affidata alla voce di Gianni Pedretti, ideale continuo, per tematiche e suoni, di 'Essere Nulla' da 'A Calling to Weakness': eppure ancora una volta il dolore e le lacrime del passato ('Chi vuol morire lentamente?') sono sublimati all'esterno, nei freddi occhi di un osservatore esterno. Davanti allo specchio ci siamo sempre noi ma, come teorizzato da Lacan, la nostra immagine è assalita dal nostro stesso sguardo sino a frantumarsi, a diventare estranea a noi stessi, a spalancare le porte dell'angoscia: 'Mi guardo, straniero e distante/un unico momento immaginando il niente/rido di me e dei miei desideri/rinchiusi in una gabbia affollata di ieri'. La title-track è paradossalmente uno dei momenti più energici di tutto il disco: introdotta da un delicato arpeggio di chitarra e da cori monastici in sottofondo si sviluppa attraverso alcuni cambiamenti di ritmo sino all'epico finale in cui un ultimo grido viene rivolto verso l'esterno: 'dicono che ci sia posto per ogni cosa/che ci sia tempo per ogni cosa/che ci sia un bisogno per ogni cosa/e allora dimmi dov'è il mio/perchè tutto quello che io sento/è l'assordante silenzio delle parole che un tempo avevano un suono/le uniche parole che un tempo avevano un significato'. Di nuovo siamo riportati ad Heidegger, all'angoscia che ci soffoca la parola. 'Poichè l'ente nella sua totalità si dilegua e poichè così proprio il niente ci assale, tace al suo cospetto ogni tentativo di dire 'è'. (...) La voce silenziosa dell'angoscia ci prende nello sgomento dell'abisso: nello spalancarsi gratuito della presenza, nel suo farcisi incontro senza possibilità d'appigli, al di fuori di ogni schema casuale, nella sua inspiegabilità e indeducibilità'. Le parole mai dette, le parole mai trovate, le parole perdute in noi stessi o semplicemente le parole mai esistite? La risposta non ci è data. Il risultato è sempre lo stesso, e tuttavia non ha nessuna importanza. Quello che rimane è un uomo alienato, distante anni luce da se stesso e dalla sua vita: non a caso, sul retro del cd viene ritratto, in una stanza vuota dalla prospettiva allucinata, un uomo senza volto che sembra uscito da un dipinto di Francis Bacon, il pittore dell'alterità, del dissolvimento dell'identità.
-|-|-» Dopo 'Closer' dei Joy Division e 'Pornography' dei Cure i Canaan hanno dato forma ad un nuovo capolavoro esistenziale. Un disco necessario, doloroso, che obbliga l'ascoltatore ad un pericoloso faccia a faccia con se stesso. Musica e parole provenienti direttamente da quel binomio, cuore ed anima, che dovrebbe essere sempre all'origine di qualsiasi tipo di espressione musicale. Il dark non è affatto morto, ci vorrebbero solamente più dischi come questo a ricordarlo.